Invecchio, non c’è
niente da fare.
E invecchiare non vuol
dire solo veder raggrinzirsi la pelle, afflosciarsi le tette, imbiancarsi i
capelli. Vuol dire anche veder acuirsi i lati del carattere, in genere quelli
più negativi, nonché le peculiarità dell’emisfero dominante.
Ora, io ho una
naturale tendenza a programmare, tutto. Se potessi programmerei il momento in
cui morire, così prima pulisco il bagno. Detesto l’imprevisto, il caso,
l’imponderabile.
Questa tendenza si
manifesta soprattutto quando sto per andare in vacanza, nella quale vacanza di “vacante”
non c’è nulla, ma proprio nulla. Organizzo e programmo ogni singolo giorno,
ogni singolo momento: 2° giorno ore 10,30, 3° giorno ore 17,15, 4° giorno ore
21... Se mi scappasse la pipì in modo imprevisto non saprei come fare.
Non è sempre stato così.
Venti o trent’anni fa partivo, e basta. La vacanza era appunto il tempo e lo
spazio dell’assenza, il periodo in cui tutto era lasciato al possibile e
all’eventuale, senza agende e senza calendari. Al massimo mi concentravo sulle
cose che mi sembrava necessario portare, specie dopo che sono nati Davide e
Carlo. Anche lì, all’inizio, ho esagerato: il bagagliaio della macchina delle
prime vacanze con Davide doveva riuscire a contenere, oltre alle valigie
strapiene, seggiolone, box, passeggino, vaschetta
per il bagnetto, sterilizzatore per i biberon e Bimby per le pappe, tutto
accuratamente ripiegato e incastrato, ma pur sempre valigie-seggiolone-box-passeggino-vaschetta-sterilizzatore-Bimby...
Già non fu più così con Carlo: aveva solo tre mesi quando ci imbarcammo tutti
su un aereo, bagaglio a mano, per una delle vacanze più meravigliose di tutta
la mia vita. Di quella vacanza ricordo solo tanto mare, tanto sole, tanto vento,
tante risate: biberon “sterilizzati” nell’acqua di mare, e bagnetti nel
lavandino, e niente di afflosciato...
Da dieci anni a questa
parte, più o meno, le mie vacanze sono cambiate. Innanzitutto si sono tristemente
ridotte, per frequenza e per durata (un po’ come per tutti), e poi sono
cambiate appunto nella sostanza: non più giorni lasciati al caso, senza orari,
ad abbronzarsi pigramente in spiaggia, ma veri e propri tours de force da un museo all’altro, da una chiesa all’altra, in
una tabella di marcia da rispettare rigorosamente, orologio alla mano. Tutto
questo comporta ovviamente una lunga, lunghissima fase preliminare di
preparazione: per giorni e giorni consulto guide, divoro centinaia di siti internet,
seleziono hotel e ristoranti dopo averne considerati migliaia; alla fine,
quando mi sembra di avere tutto abbastanza sotto controllo, costruisco il
famigerato “programma di viaggio”, viaggio in cui a quel punto tutto è
perfettamente previsto e organizzato in logica sequenza, persino le pause in
cui riprendere fiato e abbandonarsi a un meritato relax (che tale non è,
appunto perché previsto e organizzato). Che angoscia!
Quando finalmente si parte conosco ormai a memoria la lunghezza della navata di questa o quella cattedrale, la storia e le leggende relative a questo o quel sito, le particolarità architettoniche di questo o quel palazzo, e già mi sembra di avere assaggiato tutti i piatti locali, di cui conosco perfettamente ingredienti e varianti. Nulla potrebbe stupirmi, niente potrebbe sorprendermi. Peggio: anche quando sono proprio davanti a questo o quel capolavoro invece di incantarmi a guardarlo continuo a leggerne la descrizione sulle due o tre guide e sulle pile di fogli che mi porto coscienziosamente dietro. Insomma, che parto a fare?
Quando finalmente si parte conosco ormai a memoria la lunghezza della navata di questa o quella cattedrale, la storia e le leggende relative a questo o quel sito, le particolarità architettoniche di questo o quel palazzo, e già mi sembra di avere assaggiato tutti i piatti locali, di cui conosco perfettamente ingredienti e varianti. Nulla potrebbe stupirmi, niente potrebbe sorprendermi. Peggio: anche quando sono proprio davanti a questo o quel capolavoro invece di incantarmi a guardarlo continuo a leggerne la descrizione sulle due o tre guide e sulle pile di fogli che mi porto coscienziosamente dietro. Insomma, che parto a fare?
Invece per fortuna
parto, e parto con mio marito, ovvero la persona più disorganizzata che io
conosca, forse solo perché sa di avere accanto chi la vita gliela organizza perennemente,
cioè io. Lui cammina lentamente, col naso all’insù, scoprendo angoli e
particolari insospettati che nessuna guida potrebbe contemplare, nessuna
compulsiva organizzatrice di viaggi potrebbe prevedere, sopportando
pazientemente i miei continui sproloqui da prof che neanche in vacanza riesce a
smettere di essere tale (al massimo a un certo punto sbotta in un legittimo “Dani,
che palle...”). Lui è quello che fa saltare tutto il mio bel programma svegliandosi
tardi, o facendomi star seduta un’ora su uno scoglio a guardare il mare, o
deviando dall’itinerario per viuzze sconosciute, o fermandosi davanti alle
vetrine dei negozi più insulsi. Peraltro, lui è anche quello che mi salva dall’inevitabile
borseggiatore mentre me ne sto col naso e con gli occhiali ficcati sulla solita
guida, è quello che sa orientarsi senza bisogno di mappe e di piantine, è quello
che sa risvegliare la mia capacità di emozionarmi, e infine è quello che mi
massaggia meravigliosamente i piedi la sera, in silenzio.