martedì 4 ottobre 2016

Maschi



Sarà per i primi freddi, sarà per l’andamento ciclico non solo delle stagioni ma anche dei picchi ormonali, fatto sta che in questi giorni i bordi di strade e superstrade qua attorno hanno ricominciato a pullulare di “signorine” poco vestite. Oggi, tornando da scuola, ne ho contate almeno una dozzina in poco più di tre chilometri: bianche, nere, caffelatte, alte, basse, magre, grasse, giovani (giovanissime…), attempate, discrete, sfacciate, sole, in coppia.

Lungi da me l’idea di affrontare qui una questione dai mille e delicatissimi risvolti sociali, politici, giuridici, economici. Risvolti spesso drammatici. Rilevo solo una cosa, ovvero come gli uomini, TUTTI gli uomini, passando in macchina davanti alle signorine in questione abbiano tutti una qualche reazione: c’è il camionista buzzurro, bermuda e canottiera, che strombazza e saluta dal finestrino, non so se per simpatia o per un’avvenuta e reiterata frequentazione; c’è il pensionato ottantenne su una Panda che rallenta e osserva sbavando; c’è il commendatore sessantenne su un SUV luccicante o il trentacinquenne in carriera su una Porsche che ipocritamente non rallentano ma che poi guardano, e guardano, e guardano sullo specchietto retrovisore. Ma che avete da guardare?

Non riesco a capire quale fascinazione travolga gli uomini, TUTTI gli uomini, davanti a una prostituta. Non è evidentemente, almeno secondo un bieco stereotipo, l’eccitazione della conquista, visto che non c’è proprio niente da conquistare, essendo già tutto offerto su un piatto più o meno d’argento o più o meno di fango. Non è nemmeno l’eccitazione della sfida con un altro maschio per il possesso di un’unica preda, vista l’esuberanza dell’offerta rispetto alla richiesta. Insomma cos’è?

Non lo so. Non essendo un maschio, proprio non lo so. A me rimane solo un preciso… fastidio. Le signorine in questione, prima che suscitare qualsivoglia altra considerazione, semplicemente disturbano il mio senso estetico: sguaiate, mal vestite, brutte. Semplicemente brutte.
Ma evidentemente il senso estetico non è il senso che agisce sui maschi.

Vent’anni fa. Mio figlio Carlo aveva poco più di tre anni (ripeto, tre anni). Per un preciso motivo (aveva i dentini tutti storti, ed era in cura da un dentista) dovevamo percorrere un paio di volte alla settimana la fondovalle che da Cherasco porta a Mondovì. Era inverno, e quella fondovalle era popolata da una miriade di signorine in attesa di clienti. Uno di quei pomeriggi, seduto sul suo seggiolino sul sedile posteriore, con lo sguardo innocente (?) che vagava sui paesaggi della Langa, il mio bimbo innocente mi chiede: “Mamma, chi sono quelle signore?” Sorpresa e confusa da quella domanda così inattesa e imprevista, risposi con un evasivo “Boh, non lo so”. La volta dopo, stessa domanda e stessa risposta, e così per un paio di altre volte. D’altronde, era l’anno dei “perché?”, sacrosanti e tenerissimi: “Mamma, perché il fuoco brucia?”; “Mamma, perché piove in giù e non in su?”; “Mamma, perché l’acqua è bagnata?”; “Mamma, perché devo mettermi le scarpe?” (e va precisato che all’ultima domanda trovai una risposta convincente, alle altre… no).

Insomma, domanda dopo domanda mi dissi che se avessi continuato a rispondere in modo evasivo non avrei fatto altro che stimolare una deleteria curiosità, anche e soprattutto perché i bambini capiscono immediatamente se un “non lo so” dei genitori è dettato da un’effettiva incapacità di rispondere o da una precisa intenzione di non voler rispondere. Di più: mi dissi che quella era un’occasione unica per impartire al mio bimbo innocente la prima lezione su sesso, sentimenti e affettività. Dunque, mi preparai un bel discorsetto in previsione dell’ennesima, medesima, domanda (che puntualmente arrivò). Nel mio bel discorsetto volevo portare la sua attenzione non tanto sulle “signorine” poco vestite ai bordi della strada quanto sui motivi per cui erano lì, ovvero sui “signori” che ne sfruttavano cinicamente il dramma. Volevo che il mio bimbo innocente capisse la differenza tra la bellezza dell’amore e lo squallore di ciò che amore non è.

“Mamma, ci sono quelle signore…”
“Eh, le ho viste…”
“E perché stanno vicino al fuoco?” (era appunto inverno, e le signorine in questione si scaldavano vicino a bidoni con legna o non so qual altro combustibile acceso, nella più scontata iconografia della situazione).
“Eh, poverine, hanno freddo. Vedi come sono poco vestite…”
“E perché non vanno a casa?”
“Eh, poverine, non ce l’hanno una casa. Vedi che infatti sono lì, sulla strada…”
“Ah. E non possiamo portarle a casa nostra?”
“NO, Carlo, A CASA NOSTRA NO!” (e già avrei dovuto capire come sarebbe andata a finire…)
“Ah. E cosa fanno lì?”
“Eh, vedi, Carlo, sono delle signore povere, che non hanno un lavoro, e però devono trovare dei soldini per potersi comprare da mangiare. E allora hanno pensato che possono farsi dare qualche soldino da dei signori. Sai, ci sono dei signori soli, tristi, senza una moglie o dei bimbi, e che però hanno voglia di un bacino, di un abbraccio. E allora vanno da queste signore e le pagano per avere un bacino, un abbraccio. Però, che cosa brutta pagare per un bacino, un abbraccio. Un abbraccio lo si dà perché ci si vuole bene, non per dei soldini, non è vero?”
“Eh, sì…”
“Che cosa brutta pagare per un bacino, per un abbraccio… Non è vero?”
“Eh, sì…”
E poi, soppesando la taschina del giubbottino che conteneva gli spiccioli datigli dalla nonna per il gelato: “E… e quanto costa?”

 Da allora, ho capito che con i maschi non c’è niente da fare.

lunedì 19 settembre 2016

Una fiorentina, magari a San Gimignano



Dopo quasi dieci anni di onorato servizio, di cui uno di agonia, la scorsa settimana il nostro televisore ci ha definitivamente abbandonato. Trascinata da marito e figli in un megastore di elettrodomestici per comprarne uno nuovo, sono stata resa complice impotente nell’acquisto di un marchingegno secondo me esteticamente brutto quanto inutilmente faraonico, per di più complicato da non ho ancora capito bene quali strabilianti funzioni aggiuntive. Chissà perché i maschi adulti, tutti i maschi adulti, di fronte a qualsiasi aggeggio tecnologico ridiventano bambini (forse perché in realtà non hanno mai smesso di esserlo…). Ma andiamo avanti.
Per invogliare all’acquisto, in determinati periodi dell’anno quella catena di negozi offre in regalo, per importi superiori a una certa cifra, prodotti e beni di vario tipo: set di valigie, altri elettrodomestici, voli low cost ecc. In queste settimane il regalo in questione consisteva in due vocabolari Zanichelli, uno di italiano l’altro di inglese, in versione cartacea e digitale. Dio benedica l’anonimo e sconosciuto addetto al marketing che ha avuto l’idea di regalare cultura invece che un tostapane.
Così, mentre marito e figli armeggiavano in salotto, entusiasti ed estasiati, tra cavi e connessioni wireless, porte HDMI, firmware e diavolerie simili, io mi sono rintanata in cucina con lo scatolone ancora incellofanato dei due vocabolari. Ah, la sensazione goduriosa di toccare, aprire e sfogliare un libro intonso… Un vocabolario poi…

Il vocabolario di italiano in uso finora in casa nostra è sempre stato quello della Zanichelli, “Il nuovo Zingarelli”, in una precedente e ormai obsoleta edizione. Me l’ero fatto regalare da mio marito quando non eravamo ancora sposati, come regalo di Natale (!). Quel vocabolario ha accompagnato dunque più di trent’anni di vita e di lavoro, trent’anni di cui porta fieramente tutte le cicatrici: copertina più e più volte riparata con lo scotch, pagine di un indefinibile color beigino sporco, ditate, macchie di caffè e un inequivocabile odore di fumo di sigarette… Non ho mai pensato di sostituirlo, anche perché, ad essere sincera, in questi ultimi anni ho sempre più integrato il suo uso con i vari vocabolari online, soprattutto il Treccani, che offre contemporaneamente i link all’Enciclopedia, al dizionario dei sinonimi, alle aree tematiche, tutto in un click. Ma quanto mi sono persa…

Innanzi tutto, la nuova edizione riporta circa 147.000 lemmi rispetto ai 125.000 di quella di trent’anni fa, come dire che in soli trent’anni l’italiano si è arricchito, a livello lessicale, di circa il 20%: straordinario, se si pensa che il dizionario del Tommaseo (1861-1879) riportava circa 120.000 definizioni, più o meno come trent’anni fa; detto in altre parole, vuol dire che l’italiano è rimasto tale e quale per più di cent’anni per poi conoscere un’espansione vertiginosa in pochi decenni. Straordinario ma anche un po’ inquietante, perché non può non far pensare al flusso vorticoso e travolgente in cui siamo immersi, che la lingua non fa altro che registrare e definire.
La nuova edizione segnala poi circa 3000 parole “da salvare”: non propriamente parole desuete o arcaiche, ma parole che, nella generale banalizzazione e standardizzazione espressiva, rischiano di estinguersi, insieme con le relative sfumature semantiche. “Fugace”, “uggioso”, “intonso”… Che meraviglia, che tenerezza.
Compaiono poi 115 “definizioni d’autore”, ovvero 115 parole di cui è stata chiesta una definizione ad altrettanti personaggi della cultura, della scienza, dello spettacolo, dello sport. In realtà non si tratta tanto di definizioni ma di interpretazioni, che permettono di avvicinarsi in poche righe all’intimità più sconosciuta di coloro che le hanno date e di scoprire significati nuovi in parole apparentemente banali. Me le sono lette tutte, una dopo l’altra, in una sorta di libidine compulsiva. Ne riporto solo una, quella data da Mina relativamente alla parola “canto”, giusto per dare un’idea: «Dio non canta. Forse non ha mai cantato: si vede che non gli serviva. Ha dato il canto a tutti gli elementi che popolano questo mondo e che si danno da fare per tenerlo vivo. Il rumore dell’esistenza è canto. […] È una liberazione. Una manifestazione della verità. E non ha bisogno di spettatori». Ecco, giusto per dare un’idea.
Infine, tra le varie appendici la nuova edizione riporta una serie di locuzioni latine più o meno conosciute e utilizzate: accanto a prevedibili “do ut des” o “habemus papam” compaiono dei meno scontati “non omnis moriar” o “sine ira et studio”. Ora, oltre a un saluto affettuoso a Orazio e a Tacito, mi viene da fare una considerazione. Nella mia edizione di trent’anni fa le ultime pagine dello Zingarelli riportano una lunga serie di proverbi e modi di dire italiani, non locuzioni latine: “Tanto va la gatta al lardo…”, “Tirare i remi in barca”, “Madonnina infilzata”… Forse, forse, trent’anni fa c’era bisogno di spiegare l’italiano a chi italiano non era, oggi c’è bisogno di ricordare agli italiani chi sono e da dove vengono. Un plauso dunque ai compilatori del vocabolario, che non a caso hanno scelto come parole chiave di questa edizione IDENTITÀ e CAMBIAMENTO: xenismi e apertura al mondo, sì, linguisticamente e non, ma anche recupero, consapevolezza e conservazione di ciò che siamo e siamo stati, linguisticamente e non.

Insomma, ho passato quasi due ore a sfogliare pagine e pagine, avanti e indietro, lasciando che l’occhio cadesse ora su una parola sconosciuta ora su un’altra tanto amata, ora sulla Prefazione ora sulle Avvertenze, in una beatitudine totale. E a un certo punto ho capito, esattamente, cosa mi sono persa in questi anni, anni di vocabolari digitali, risorse telematiche, enciclopedie online. Cosa ci stiamo spaventosamente perdendo.

Mi sono persa la dignità, il senso, la pienezza che solo un’opera completa, dalla sua prima alla sua ultima pagina, può possedere e offrire. Un’opera concepita e realizzata da qualcuno con cura e con rigore, con una precisa architettura interna, con precisi criteri e obiettivi, dichiarati e chiariti, tutti elementi che si possono cogliere solo in un’opera completa, dalla sua prima alla sua ultima pagina. Un sapere organizzato, strutturato, organico, ragionato, giustificato, che dunque si offre anche come “modello” di sapere e di conoscenza. Tutto il contrario di quanto avviene consultando una singola voce su un dizionario o su una enciclopedia online, che non possono che offrire un sapere disperso e frammentato, pillole di conoscenza destinate a perdersi in un mare magnum di altre pillole. E se questo è vero per un vocabolario, destinato appunto a essere consultato e non propriamente letto, figuriamoci per tutto il resto. C’è anche un altro aspetto: un vocabolario o un volume di un’enciclopedia, tenuti fisicamente in mano, soppesati con gli occhi nella loro mole, comunicano immediatamente a chi li sta sfogliando la misura dei propri limiti, della propria abissale ignoranza rispetto alla totalità del sapere; inducono umiltà, consapevolezza; accendono scintille. Tutto il contrario del sapere offerto virtualmente in rete, tanto più illusorio quanto più potenzialmente infinito, perché appunto non si è in grado di percepirne l’estensione, la complessità, e che fa così nascere la presunzione di poter sapere tutto o, peggio, di tutto già sapere. Un sapere inoltre falsamente democratico, proprio nella sua apparente immediata accessibilità, e che invece produce un’ulteriore divaricazione tra chi semplicemente non sa e crede di sapere (i più), e chi non sa ma almeno sa di non sapere (i pochi). E questo genera conseguenze devastanti in un Paese e in una civiltà, dove conoscenze sia pur diffuse ma approssimate, frammentarie, superficiali, comunque scarse e non critiche, producono una generale, drammatica ignoranza. L’avevi già capito tu, Giacomino mio: «Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco»…

Ma il discorso è più ampio, e investe in generale le nostre modalità di comunicazione e di conoscenza, sempre più virtuali, sempre più incorporee. A volte mi sembra di vivere, paradossalmente, in una specie di Medioevo, in cui la “dematerializzazione” imperversante e sempre più spesso coatta costituisce una sorta di nuovo ascetismo che deprime, svilisce e nega ogni dimensione fisica, ogni esperienza sensoriale. Abbiamo a disposizione infinite “risorse telematiche”, modelli 3D dell’universo, rappresentazioni digitali di ogni possibile immaginabile realtà, ma è come far l’amore con un avatar su Second Life invece che con un corpo in carne e ossa, oppure come stare ore e ore a guardare video su blog di cucina invece che armarsi di coltello e forchetta davanti a una fiorentina, magari a San Gimignano (che razza di paragoni, Daniela…).
Sogno un nuovo Umanesimo che ridia dignità al corpo, all’esperienza sensoriale, alla materialità. Che riconosca e affermi che la conoscenza, la consapevolezza e la strutturazione di sé e del mondo passa anche e soprattutto e prioritariamente attraverso i sensi. Per esempio, attraverso un vocabolario tenuto in mano. Sia chiaro: non sono così ottusa da non capire che un modello 3D dell’universo è un tantino più comodo che catapultarsi su Marte, e non sono così troglodita da non capire che sostanzialmente non c’è differenza tra le pagine di un libro e le schermate di un Kindle o di un IPad, tra un supporto cartaceo e uno digitale, con tutti i vantaggi anzi nel secondo caso della portabilità, dell’economicità, della sostenibilità ecc. ecc. ecc.
In fondo, volevo solo dire che un libro è un libro.

Ma ormai è chiaro che queste sono solo le farneticazioni nostalgiche di chi passa mezzo pomeriggio rintanata in cucina a sfogliare un vocabolario. Di chi non è neppure coerente, visto che non sta usando esattamente carta, penna e calamaio…
Quindi adesso, dopo tutto ‘sto sproloquio… vado a guardarmi un film su Sky, in 4K Ultra HD, sullo strabiliante televisore nuovo.




lunedì 12 settembre 2016

La foto del primo giorno



E anche quest’anno si ricomincia. Oggi primo giorno di scuola.

Stamattina stazionavo fuori dal cancello, in attesa che il preside chiamasse gli alunni delle prime, uno per uno, nome per nome, a formare i vari gruppi classe. Un rituale.
Non so perché, ma invece che sulle faccine di quei bimbi e bimbe la mia attenzione si è posata sui genitori presenti (pochi e sparuti, diciamo una ventina su quasi duecento alunni). Le mamme formavano piccoli crocchi di due o tre, i papà aspettavano silenziosi e isolati. Tutti, comunque, lontani una decina di metri da quei figli che si assiepavano davanti al cancello: non si può tenere per mano un figlio che inizia il liceo…
Al momento della chiamata, i cellulari tenuti fino a quel momento così, quasi per caso, più o meno disinvoltamente, in mano, hanno fatto la loro comparsa e hanno scattato la foto, unica e pudica, del primo giorno. La foto dell’ingresso, la foto del “passaggio”.

Mi sono venute le lacrime agli occhi. Non solo perché mi sono ricordata dei giorni in cui anch’io ho scattato le identiche, medesime foto ai miei figli che iniziavano l’asilo o le elementari, ma perché ho pensato che quei genitori ci affidavano i loro figli, il loro futuro, e ho sentito tutta l’enorme responsabilità che questo comporta.

Vorrei ringraziare qui, adesso, quei genitori. Ringraziarli per la fiducia, per la speranza, persino anche forse per l’inconsapevolezza con cui ci hanno consegnato i loro figli. Vorrei promettere loro che mi prenderò cura di quei piccoli esseri spauriti (per carità, tempo tre mesi e diventeranno ben altro…) con tutto l’amore e il rispetto di cui sono capace. Che cercherò di farne degli uomini e delle donne, se ne avrò il tempo e le energie. Lo prometto.

Certo che… Ho concluso l’anno scolastico appena finito piangendo, per il dolore del distacco; inizio questo piangendo, per l’emozione dell’incontro. Andiamo bene… Forse l’ho già detto, ma invecchio, non c’è niente da fare.

P.S. La foto che accompagna questa pagina è quella del primo giorno d’asilo di mio figlio Davide, che ora ha quasi trent’anni.
Con infinito pudore e infinita tenerezza.

P.P.S. Aggiungo qui due pagine su un altro “passaggio”. Sono trascorsi cinque anni, ma riscriverei quelle pagine pari pari.