“La passione isterica è
solo un nome;
in ogni caso, varie e
innumerevoli sono le forme in cui si presenta”.
Galeno
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Nell’immaginario
collettivo, e nell’accezione corrente, una persona ‘isterica’ è una persona che
dà in escandescenze a ogni minima contrarietà, che reagisce in modo
spropositato agli eventi rovesciando su
qualche povero malcapitato grida taglienti, gesti inconsulti, sguardi paonazzi,
in un’ira astiosa e carica di rabbia. “Stress”,
si commenta di solito, defilandosi velocemente e scuotendo la testa con
commiserazione.
Ma non è quella l’isteria. No,
proprio no.
D’altra parte, per capire cosa fosse
ci son voluti 2500 anni.
Ippocrate, che per primo usò il
termine, la riteneva un’esclusiva del sesso femminile e la attribuiva ad
alterazioni funzionali dell’utero (ύστέρα, appunto), immaginato come organo
mobile in grado di ‘migrare’ all’interno del corpo e di premere su altri organi.
Dopo Platone e Celso, tra gli altri, che
sostennero più o meno le stesse teorie, fu Galeno il primo a rifiutare l’idea
di un utero ‘erratico’, intuendo piuttosto una stretta correlazione tra mente e
corpo e rilevando anche una serie di disturbi analoghi in soggetti maschili.
Tutti, comunque, individuarono nella forzata astinenza sessuale l’origine dei
disturbi: a vergini e vedove venivano prescritti massaggi sul ventre,
suffumigi, pessari intrisi di aromi vari ma, soprattutto, il matrimonio. Sempre
a Galeno si deve la divisione della sintomatologia in tre classi: attacchi con
perdita di conoscenza, svenimenti, bradicardia; attacchi con problemi
respiratori e senso di soffocamento; attacchi con spasmi muscolari, contrazione
delle membra, convulsioni, mutacismo. Esattamente i sintomi che, durante il
Medioevo e fino a tutto il ’600, portarono le isteriche ad essere considerate come
l'emblema stesso della stregoneria e come tali ad essere perseguitate,
torturate, mandate al rogo.
Nel secolo successivo ci si orientò verso
un’interpretazione neurologica dei disturbi isterici, ma bisogna attendere la
seconda metà dell’Ottocento per un approccio radicalmente diverso: Jean-Martin
Charcot, studiando e confrontando tra loro pazienti epilettiche e pazienti isteriche
rinchiuse nell’ospedale-manicomio della Salpêtrière, affermò l’origine non somatica
dell’isteria, giungendo
a definirla come “nevrosi sprovvista di un danno anatomico specifico”;
soprattutto, Charcot sviluppò un’ipotesi fondamentale, che avrebbe spalancato la
strada alla psicoanalisi: l’esistenza di un non meglio specificato ‘subconscio’
in cui si conservava traccia di traumi psichici più o meno rimossi.
E fu appunto Freud, studiando in collaborazione
con Breuer il caso di Anna O., a rivoluzionare l’interpretazione e il
trattamento dell’isteria, la cui comprensione portò ad elaborare i concetti
stessi di “inconscio”, “trauma”,
“conflitto psichico”, “rimozione”, “transfert”. L'intuizione portante è
inscritta nell'espressione “linguaggio d'organo”, secondo la quale quella che
era considerata una sintomatologia assurda, enigmatica e inclassificabile
diventava una forma di comunicazione dotata di significato e di senso:
attraverso i sintomi il corpo isterico parla, dà voce a fantasie e pulsioni che
non potrebbero essere comunicate in altro modo in quanto la mente stessa si
rifiuta di accoglierle, di trasformarle in pensieri razionali e coscienti, men
che meno di esprimerle verbalmente; la manifestazione somatica, allorché determinate circostanze impediscono una
comunicazione razionale, diviene l’estremo espediente di chi non sa come
altrimenti farsi ascoltare. Freud ribadì inoltre l'opinione secondo cui nell'isteria la
paziente sperimentava nuovamente un originario trauma psichico, vissuto in età
infantile e costituito da un conflitto tra un impulso e la sua repressione: quando una
situazione affettivamente significativa riesuma
per un gioco di analogie il ricordo del trauma subito, il sintomo diviene il
veicolo del ritorno di ciò che la coscienza ha rimosso, e la reazione isterica
l’unico modo per comunicare se stessi. Freud concluse che la malattia colpisce soprattutto le donne perché
l'educazione impartita loro fin da bambine impone di reprimere pulsioni e
sentimenti (quali il desiderio o l’ostilità) considerati in contrasto con
un'immagine idealizzata e angelicata della femminilità. Dunque, non
un’eziologia somatica, ma psichica e culturale.
Nella
seconda metà del ’900, Lacan fa dell'isterica una figura centrale del suo “ritorno
a Freud”. Incrociando il pensiero freudiano con le
teorie della comunicazione di Jakobson e di de Saussure, Lacan attribuisce al sintomo isterico
la funzione di ‘significante’ all’interno di un atto comunicativo cui viene
riconosciuta dignità di linguaggio strutturato, rispondente a leggi proprie e
articolato su assi metaforici e metonimici. Tale approccio, che considera dunque
la sintomatologia tradizionale una forma di comunicazione, sia pur inconscia e
basata su un linguaggio cifrato, da decodificare, eleva definitivamente l’isterica
alla posizione di soggetto, sottraendola a quella di oggetto d’osservazione cui
era relegata dal sapere medico-psichiatrico. Così, inserita nell'ambito delle
discipline storico-ermeneutiche, l'isteria è ufficialmente espunta, nel 1987, tanto
dal repertorio delle malattie organiche quanto dal catalogo delle malattie mentali.
Più o meno
coerentemente, si assiste oggi a una sorta di tabuizzazione del termine stesso
“isteria”, quasi come se, occultando la parola che per secoli ha definito,
stigmatizzato, colpevolizzato donne represse e inascoltate, si ottenesse, da un
lato, di dimenticare e far dimenticare diagnosi strampalate e trattamenti
umilianti, dall’altro di relegare ancora una volta la donna in una zona d’ombra,
negandole il riconoscimento di ciò che non rientra più, appunto, nei ranghi del
sistema medico e dunque non è più reputato sottoponibile a specifiche indagini.
Eppure, sotto le diverse terminologie attualmente adottate non è difficile
riconoscere le forme di isteria individuate da Freud: il “disturbo da attacchi
di panico” altro non è che l’“isteria d’angoscia”, il “disturbo di conversione”
è esattamente l’“isteria di conversione”, la “nevrosi ossessiva” presenta come
genesi l’“isteria di ritenzione”, e così via.
Gli ultimi vent’anni
hanno in effetti visto un incredibile proliferare di definizioni, distinzioni,
classificazioni di categorie nosologiche in cui psichiatria, psicologia e
psicoanalisi si sovrappongono e si confondono, contendendosi termini e spazi
d’azione. Cercando il
termine “isteria” su dizionari di psicologia anche recentissimi se ne trova più
o meno questa laconica definizione: “classe di nevrosi che manifesta quadri
clinici tra loro molto differenziati, caratterizzati da sintomi fisici senza
base organica” (come Charcot, centocinquant’anni fa...); la stessa voce rimanda
poi però a una serie infinita di altre voci: “psiconevrosi”, “fissazione”, “disturbi
del comportamento”, “disturbo istrionico di personalità”, “disturbo
ossessivo-compulsivo”, “disturbo di somatizzazione”, “disturbo algico”, “disturbo
da dismorfismo corporeo”, “disturbo di conversione”, “disturbo di...”,
“disturbo di...”, “disturbo di...”. Insomma, donne “nevrotiche”, “fissate”, “disturbate”,
tutto purché non “isteriche”; si è applicato cioè il medesimo, ipocrita,
processo che ha portato a coniare espressioni eufemistiche in sostituzione di
altre percepite come offensive o socialmente sconvenienti, per cui, per
esempio, l’handicappato è diventato “disabile” e poi “diversamente abile”. Nel
caso dell’isteria, anzi, è accaduto qualcosa di ancora diverso: non solo è
stato occultato il termine, ma è stato rimosso il concetto stesso, in un affannoso
concentrarsi sulle singole manifestazioni sintomatiche, in una furia
tassonomica che ha fatto perdere di vista le cause remote e unificanti. Le
uniche che contano.
Dunque,
che fine hanno fatto le “isteriche”?
In
una percentuale minima, intorno al 5%, sono in cura da psicoanalisti e
psicoterapeuti; le altre, tutte le altre, affollano gli ambulatori medici, i
pronto soccorso, i centri diagnostici, gli studi specialistici, le corsie dei
reparti ospedalieri. Secondo stime in difetto,
le ‘isteriche’ costituirebbero più del 50% delle donne che si rivolgono ai
medici di base, presentando la sintomatologia più varia: affezioni
cardio-circolatorie (angina pectoris,
tachicardie, aritmie, ipertensione...), gastro-intestinali (esofagiti,
gastriti, epatopatie, coliti...), endocrine (pancreatiti, ipertiroidismo...),
dermatologiche (eczemi, herpes, micosi, psoriasi...), oftalmiche
(congiuntiviti, cheratiti, glaucoma...), neurologiche (cefalee, parestesie, vertigini,
insonnia...), ginecologiche (dismenorree, dispareunia, endometriosi...) ecc.
ecc. ecc. Praticamente non c’è organo o funzione che non possa diventare
veicolo di quell’originario conflitto irrisolto, che non possa diventare ‘voce’
di quella comunicazione impossibile eppure drammaticamente urgente. E i medici?
I medici, impreparati e/o riluttanti a riconoscere l’isteria come tale, si
ostinano a trattare i sintomi in modo esclusivamente medico, non cioè come
l’appello di una persona che soffre di un’impossibilità di comunicare
altrimenti, una persona in cui la parola non-detta si è “convertita” nel
sintomo, ma come la disfunzione di uno o più organi che bisogna curare e
guarire; al massimo, la donna viene liquidata come “depressa”, e curata come
tale.
Il risultato è
doppiamente tragico: da un lato, se il sintomo non riceve udienza nel suo
significato profondo, la donna (la quale, sia chiaro, non simula la patologia, della
cui origine psichica è inconsapevole, una patologia che trova comunque conferma
nei relativi esami diagnostici e strumentali) è costretta ad adottare altre
forme di rappresentazione, di cui il corpo continua ad essere il palcoscenico,
accumulando una serie impressionante di malattie; dall’altro, la belle indifférence, ovvero quella
peculiarità dell’isteria che consiste in un atteggiamento appunto di indifferenza
di fronte a sintomi anche gravi (e che distingue il soggetto isterico da quello
ipocondriaco), porta la donna a sottovalutare le proprie condizioni e a non
seguire le cure prescritte, con la conseguenza che la malattia peggiora e cronicizza.
Alla fine, dopo anni e anni di tentativi falliti di comunicare attraverso il
corpo, la donna cesserà di creare sintomi, avendo dovuto constatare che questi
vengono intesi sempre e solo come ‘disturbi’ e mai come ‘messaggi’; non le
resterà che ‘tacere’ definitivamente, avvolgendo la propria vita nel silenzio
di una nevrosi pietrificata, irreversibile e incurabile, con un corpo straziato
e un’anima senza più desideri. E sola, come sempre.
Talora l’isteria trova
però sbocchi diversi, che consentono di aggirare e superare il fallimento della
conversione somatica. L’Io, per mantenere sotto controllo il materiale psichico
patogeno consentendo tuttavia alle energie pulsionali di trovare sfogo, può
scegliere di adottare un altro meccanismo di difesa, trasformando cioè la
conversione in sublimazione; in questa, la carica aggressiva, dopo un’adeguata trasformazione dello scopo, si
consuma in un’attività socialmente accettata e con significati e contenuti adattivi,
per esempio un’intensa attività intellettuale. Più spesso, le energie
pulsionali vengono scaricate in professioni particolari, in cui ci si vota
all’amore universale, alla salvaguardia dei più deboli, alla difesa di diritti
negati, professioni sentite e vissute come ‘missioni’ (l’infermiera, l’insegnante, la sindacalista,
l’avvocato). Il conflitto tra l’Io e l’Es raggiunge un compromesso, un
equilibrio, precario ma tale da consentire di condurre un’esistenza
accettabile, sia pur dietro una maschera.
Ma che ne è di quel 5%
che si rivolge a psicoanalisti e psicoterapeuti? Si guarisce dall’isteria? Innanzitutto
occorre osservare che qualsiasi terapia psicodinamica richiede una componente motivazionale
nel paziente, il che di norma ne prevede, appunto, un’autoselezione a monte: alla
percezione del proprio disagio, alla disponibilità a indagare il proprio io e
le proprie emozioni si associa in genere una volontà (magari incerta e fluttuante)
di modificare lo status quo. Sottoporsi
a una psicoterapia o a un trattamento psicoanalitico presenta quindi considerevoli
vantaggi, se si riescono a superare le resistenze iniziali e il dolore profondo
che si deve poi necessariamente sperimentare: con la guida del terapeuta e con
l’auto-osservazione si diviene consapevoli delle proprie ambivalenze e delle
proprie modalità relazionali, si individuano i circoli viziosi tra pulsioni, pensieri e comportamenti, si esplorano parti di sé normalmente non accessibili.
Il risultato non sarà forse la felicità, come Freud avrebbe voluto, ma certo si
percorre un processo di conoscenza, di maturazione e di accettazione di sé;
potenzialmente, si raggiunge persino una impensata libertà. Nel caso specifico
dell’isteria il trattamento psicodinamico permette di ‘smascherare’ la reazione
isterica, attribuendo finalmente un significato a quel significante in apparenza
assurdo e autoreferenziale; inoltre, permette di divenire consapevoli
dell’isteria come propria precipua modalità relazionale e di riconoscerla come
comportamento disfunzionale; se poi ci si sottopone a un percorso propriamente
psicoanalitico sarà possibile anche far emergere l’originario trauma psichico
che ne costituisce l’eziopatogenesi. Evviva, la via della guarigione è
assicurata.
Già. Però però però... Però c’è un “però”, anzi tre.
Secondo recenti acquisizioni da parte delle
neuroscienze pare che il disturbo di conversione possa avere basi neurologiche:
in alcune pazienti è stata osservata un’alterazione a livello del sistema
nervoso centrale consistente in un’eccessiva attivazione corticale (ciò che
forse Freud aveva intuito coniando l’espressione “compiacenza somatica”) e sono
state inoltre osservate anomalie nel rapporto e nelle connessioni tra emisfero
destro e emisfero sinistro. Sembra inoltre essere presente, se non proprio una
specifica ereditarietà, quanto meno una certa familiarità nella predisposizione
ad esprimere le emozioni attraverso il corpo. Dunque, non pare possibile
modificare ciò che risulterebbe un carattere congenito o definitivamente
acquisito.
In secondo luogo, non è sufficiente riportare in
superficie il trauma psichico infantile responsabile dei conflitti, né
consentire a se stessi di abreagirlo: per potersene liberare occorre integrarlo
emozionalmente nella propria coscienza, e le resistenze in questo senso sono
spesso insormontabili; in ogni caso, il ricordo sarà sempre presente, e verrà
riesumato ogni qualvolta una circostanza analoga (o percepita come tale) ne attivi
il potenziale disturbante, riaprendo una ferita mai sanata.
Infine,
paradossalmente, lo ‘smascheramento’ della reazione isterica può non venir
vissuto affatto come una liberazione bensì come una espropriazione della
propria possibilità di comunicare, della propria unica possibilità di comunicare. È vero, non sarà più presente la
“grande crisi isterica”, quella scambiata spesso per un attacco epilettico,
quella che portava al rogo le ‘streghe’ dell’Inquisizione, quella che sconvolge
chi la vive e chi vi assiste; ma non sarà più presente non perché sia avvenuta
una guarigione ma perché l’isterica ‘psicanalizzata’ la riconoscerà
immediatamente come rappresentazione ‘teatrale’ e la bloccherà al suo sorgere: osservando
con orrore le proprie membra iniziare a contrarsi, terrorizzata e disgustata da
quel corpo che vuol prendere il sopravvento sulla mente, in un estremo sforzo
di autocontrollo si negherà quella che sa essere solo una comunicazione
metaforica e distorta, vergognandosi infinitamente della propria incapacità a
comunicare se non in quella forma selvaggia e tribale. Ma quel corpo rivendicherà
in altro modo la propria funzione di portavoce dei conflitti irrisolti, ed ecco
la serie infinita di malattie (psicosomatiche, sì, ma pur sempre malattie), che
però riceveranno ancor meno attenzione e cure di quanto non succeda quando non
si è coscienti della loro origine e del loro significato; non più una belle indifférence, ma un desolato e
tragico “vedersi vivere”. Corpo e psiche si inventeranno allora altre forme di
rappresentazione, e all’isterica capiterà di ‘agire’ in sogno ciò che essa si
nega nella realtà: nella dimensione onirica vedrà se stessa mettere in atto le
manifestazioni più classiche dell’isteria, dalle convulsioni al mutacismo; da
quei sogni si sveglierà di soprassalto, in preda ad emozioni angosciose, emozioni
tanto più ‘urlanti’ quanto più paradossalmente rappresentate da un arto
contratto o da una bocca serrata. A quel punto, però, l’isteria sarà implosa su
se stessa: i sogni non hanno pubblico, non realizzano alcuna comunicazione, né
diretta né indiretta. Fine, capolinea. Non solo i conflitti sono rimasti
irrisolti ma, nel pervicace intento di controllare tutto attraverso la ragione,
ci si è preclusi l’unica possibilità, sia pur distorta, di dare voce al proprio
cuore.
Ma
l’isteria è astuta, subdola, diabolica; prima o poi, si può star certi, troverà
un modo nuovo e imprevedibile per manifestarsi.
Per
esempio, ragionando di se stessa sulle pagine di un blog.
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"L'isterica
non cessa di domandare al medico di sostenerla nella sua ricerca
di questo
aldilà - essere una donna -, che la deve condurre
dall'isteria
(da una sessualità che vive esclusivamente dell'assoggettamento al fantasma
della felicità
impossibile) alla realizzazione della femminilità.
Che cosa occorre perché l'isterica diventi una donna? Che un uomo le dia la voglia di esserlo".
Lucien Isräel, L’hystérique, le sexe et le médecin, Paris 1976
Che cosa occorre perché l'isterica diventi una donna? Che un uomo le dia la voglia di esserlo".
Lucien Isräel, L’hystérique, le sexe et le médecin, Paris 1976
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