martedì 19 febbraio 2013

Tempi composti


Mi hai cercata tu, e son passati tre anni. Il messaggio sul telefonino era lungo, troppo lungo per non essere strano. Ti ho dato appuntamento per il giorno dopo, a scuola.
Eri lì, un po’ distante dal cancello, puntuale come sempre. Nessun cambiamento percettibile, a prima vista: le stesse spalle larghe, forti; i pugni stretti nelle tasche dei jeans; i movimenti decisi, sicuri, sciolti. Già, per te lo sport è agonismo, non la partitella della domenica. Mi sono tornati in mente i tuoi polpacci, quella volta che -ricordi?-  zoppicavi per uno strappo e io mi improvvisai massaggiatore e infermiere. Ridevi d’incredulità, mentre dicevi “prof, è meglio del mio coach!”. Mi sciolsi di tenerezza.

Ieri eri lì, ad aspettarmi. Anche gli occhi ti sono rimasti gli stessi: penetranti, caustici, azzurri. Non sono mai riuscita a reggere l’intensità dello sguardo di chi ha gli occhi azzurri; dei tuoi, meno ancora. Solo l’espressione mi è parsa diversa, un po’ indurita. Mi sono detta che forse era per via dei capelli, i tuoi capelli biondi. Completamente rasati.
Abbiamo preso un caffè, nel dehors deserto di un bar vicino a scuola, in un’aria umida che in questa stagione sa di nocciole tostate e di tartufo. Le sigarette sul tavolino. Qualche passante sul marciapiede.

C’è sempre imbarazzo, da parte mia almeno, nel ritrovarsi dopo anni vicino a qualcuno con cui si sono condivisi giorni e giorni, specie se non esistono più panni, o ruoli, di cui ricoprirsi e mascherarsi. Così, abbiamo parlato di cose e persone, le più lontane da noi, fingendo un interesse complice: nomi, storie, nebbie. Poi, con una indifferenza che non sono riuscita a credere vera, hai raccontato delle tue giornate, una uguale all’altra, orari da impiegato e poco più di niente di quel che c’era nei tuoi sogni di allora. Freddezza e astio, nelle tue parole e nei tuoi giorni, e come il rancore di un’attesa frustrata.

E’ passata quasi un’ora. Non capivo perché cercavi di intercettare continuamente gli sguardi di chi passava, sfidando un giudizio non so quanto irriso o temuto. Ho provato a guardare con i tuoi occhi. In effetti potevamo sembrare una coppia quantomeno mal assortita, e non solo per età: io con i miei capelli imbellettati, decolletées-foulard-giacca blu, tu con la tua felpa sdrucita e quella testa rasata. Soprattutto, tu con i tuoi vent’anni.

Mi viene in mente ora una vacanza con Carlo, un paio d’anni fa. Sulla spiaggia, mentre gli spalmavo la schiena di crema beandomi nella voluttà di carezze ormai così rare, cogliemmo entrambi sguardi a metà tra la riprovazione e l’imbarazzo. Chissà perché nessuno di quelli che ci fissavano riuscì a pensare che eravamo solo, banalmente, meravigliosamente, madre e figlio.

Una delle tante pause stava diventando troppo lunga. Ti ho chiesto con brutalità: “Perché mi hai cercata?” La risposta è arrivata troppo veloce per non essere stata meditata prima. Hai detto che quando avevi deciso di indossare una divisa e imbracciare un fucile ero stata l’unica a sostenerti e incoraggiarti in quella scelta, e che quindi adesso…
Mentre cercavi le parole per andare avanti sono ritornata a quell’anno, a quei mesi. Già, tua mamma ne fece una tragedia. Venne da me a pregarmi che ti dissuadessi, che ti indicassi altre strade, forse a cercare conferma ai suoi sospetti: un’insegnante dissennata, senza criterio, che travia i suoi alunni, e per di più guerrafondaia! Le avevo risposto che vestire la divisa è un onore, e che io stessa avrei voluto diventare ufficiale se solo trent’anni prima fosse stato possibile. Che un genitore dovrebbe essere fiero di una scelta simile e che, soprattutto, l’unica cosa che conta è che i figli siano felici, quale che sia la vita, anche difficile da accettare, che hanno deciso di vivere. Quante volte mi sono dovuta sorbire colloqui simili, quante mamme preoccupate deluse indignate. Il tuo caso non era poi molto diverso da tanti altri. Anzi, per niente. Appena un po’.

Mi ero persa qualche parola. Stavi già dicendo che avevi intenzione di tagliare definitivamente i ponti con i tuoi, ma che gli affitti erano cari, 600 euro per un bilocale in periferia, e che comunque entro Natale tu e la tua compagna avreste preso una decisione. Via, per sempre, a centinaia di chilometri da casa, lontano da tutti, voi due.
Ho deglutito, una volta sola.
“Hai detto ‘compagna’?”
“Sì, prof, ‘compagna’.”

Scommetto che sorriderai, nei prossimi giorni, ripensando al tono di finta indifferenza con cui ho ripreso a parlare, chiedendoti di lei, di voi. Ma io sorrido ora, sorrido del tuo sorriso di quel momento, quando mi hai finalmente detto quel che volevi dirmi.
Dopo, è stato un fiume in piena, nell’impellenza di dire tutto, e di tutto dire: dei pregiudizi, dell’ostilità, del padre-padrone di lei, di una cultura che rifiuta chi trasgredisce, del bisogno di anonimato, del bisogno di una vita normale a dispetto di tutto e di tutti. Sì, insomma, una famiglia, una casa, dei figli. No, figli no, scusa.

Le macchine ci aspettavano nel parcheggio. Ho capito che non ci sarebbero state altre volte, con te. Che quello era un addio. Che mi avevi cercata per lasciarmi un dono, macigno levigato tra le mie braccia. Che avevi voluto rendermi complice, ancora una volta.
Non so se sono una buona complice. A volte penso che sarebbe meno da vigliacchi entrare a svaligiarla, la banca, piuttosto che far da palo, fuori, aspettando che tutto si compia.
Io volevo solo insegnarti a voler essere felice, a inseguire i tuoi sogni, a difenderli rompendotici le unghie, se necessario. Non so se ci sono riuscita. Non credo. E comunque non intendevo a questo prezzo.

Salutandoci, ti ho detto “Sii felice, se puoi”.
E’ quello che ti ripeto ora.
Buona vita, Elena.

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