Tra le migliaia di
pagine che, anno dopo anno, leggo e rileggo in classe ce n’è una che, anno dopo
anno, mi turba e mi sommerge ogni volta di più. Quest’anno avrei addirittura
preferito non doverla proprio leggere. Strano che questo capiti con ciò che si
ama di più.
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere: cinquanta righe indefinibili, di cupa
e greve leggerezza. Per anni ne ho fatto un piccolo, piccolissimo regalino di
Natale agli alunni di quinta: una fotocopia arrotolata a mo’ di papiro e legata
con un nastrino rosso, una ciascuno; nelle mie intenzioni voleva essere un
invito a non smettere di sognare, a non smettere di credere nel futuro,
nonostante tutto, nonostante tutto. Beh, ho smesso: quello che mi sembrava un
augurio pieno di tutto il mio affetto mi apparirebbe oggi una perfidia cinica e
quasi sadica.
Forse, oggi il mio
affetto si esprime proprio così, in questo tacere loro le disillusioni che li
aspettano (o almeno nel non rincarare la dose rispetto a quanto già spiegato in
classe). Del resto, più si invecchia e più si impara che l’amore, a volte, è
fatto di silenzi ben più che di parole.
So solo che quest’anno, quando sono arrivata a leggere «Quella
vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce;
non la vita passata, ma la futura», la voce mi si è incrinata, il naso ha
cominciato a pizzicarmi. Li ho guardati, e sono stata travolta da un’ondata di
tenerezza. E di pena.
Ma quest’anno della mia
tenerezza e della mia pena leopardiane non avrebbero saputo che farsene, e anzi
non hanno saputo che farsene, in generale, di tutte le mie belle spiegazioni e
commozioni. Quest’anno Leopardi non è proprio riuscito ad affascinare, a
sedurre cuori e menti, generando anzi un netto rifiuto, un’insofferente
avversione. I ragazzi hanno eretto un muro spesso, impenetrabile: nessuna
empatia con l’Islandese, nessuna identificazione con Saffo, nessuna sintonia
con Tristano. Di più: «diman tristezza e noia / recheran l’ore» ha fatto
chiudere rumorosamente il libro a un paio di loro, e quando, tutta ispirata, ho
detto che, come per il pastore errante, “l’importante non è trovare delle risposte
ma porsi delle domande” mi hanno guardato come se mi fossi fumata qualcosa di
troppo…
Eppure per me, alla loro età, Leopardi fu un innamoramento
totale: abissi di tetraggine in cui mi crogiolavo compiaciuta, come la maggior
parte dei miei coetanei.
Dunque, cosa può
essere successo?
Mi assolvo (con un po’
di presunzione) dall’ipotetica colpa di non essere più sufficientemente chiara
o coinvolgente nelle spiegazioni, e assolvo loro da facili accuse di
svogliatezza o fannullaggine, ché anzi hanno seguito con devota concentrazione,
preso appunti diligentemente, preparato le interrogazioni in pomeriggi di
studio matto e disperatissimo.
Il fatto è che, temo, al pessimismo leopardiano ci ho aggiunto
il mio (accoppiata micidiale), e i ragazzi se ne sono ritratti infastiditi e
ostili. E il fatto è che noi, alla loro età, avevamo di fronte ben altro
futuro; nessuno nutriva dubbi sul fatto che quel futuro l’avremmo agguantato e
fatto nostro: un lavoro, una casa, una famiglia… Tutto sembrava -ed era- possibile.
Sì, potevamo permetterci il lusso di essere pessimisti.
Forse, quanto più il
futuro appare -ed è- buio e privo di certezze, persino di promesse, tanto più la
giovinezza si crea illusioni e speranze, in un feroce e indomabile istinto di
sopravvivenza in cui non c’è spazio per compiaciuti e intellettualistici pessimismi.
E forse, forse, è questo quello che ci salva.
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