Luogo: Segreteria
Immatricolazioni Università di Torino.
Giorno e ora: lunedì 26 settembre 2011, 13.45.
Sono ad accompagnare Carlo alla sua immatricolazione all'Università. Il
lunedì è il mio giorno libero, Carlo non guida ancora bene per via del
ginocchio, in più la segreteria è proprio a due passi da casa dei miei (non ci
vado da Natale...). In realtà tutto è un pretesto per poter condividere quello
che mi sembra essere un momento importante, bello: il mio cucciolo che si
iscrive all'Università... Insomma sono lì, con lui.
La segreteria è stata ricavata nell'ex Manifattura Tabacchi: uno spazio
immenso, dove si aggirano centinaia di ragazzi e ragazze (ovvio...) con fogli e
fogli in mano, l'aria spaesata e fintamente strafottente di chi ha vent'anni.
Caldo, chiacchiericcio, le macchine sul corso. A guardar bene ci sono anche
molte altre mamme, quasi tutte alla ricerca di un posto dove sedersi,
possibilmente all'ombra, altre preoccupate di non sembrar meno giovani delle
figlie. Qualche papà, visibilmente vigile e un po’ ansioso. Nell'atrio bisogna
prendere un biglietto con il proprio numero e poi armarsi di pazienza:
"Ora stimata di attesa: 42 minuti", e in realtà ci vorranno due ore e
mezza...
Dopo diversi entra-esci nel
tentativo di far passare il tempo, sempre con il biglietto in mano, un usciere
mi blocca, mentre Carlo rientra con i suoi fogli:
“Lei, signora?”
“Ehm, sono qui con mio figlio,
stiamo aspettando…”
“No, lei deve aspettare fuori”
Va beh - mi dico - in effetti ha ragione: se, oltre ai diretti
interessati, anche tutti gli accompagnatori dovessero stazionare
nell’atrio, l’atrio stesso scoppierebbe. Però, però, però… c’è qualcosa che non
mi torna: l’atrio in realtà è proprio pieno di gente che palesemente non è lì
per iscriversi: torme di amici/amiche, fidanzati, altri umani non meglio
identificabili, e soprattutto signore che, escludendo l’ipotesi di
un’improvvisa impennata di immatricolande cinquantenni, hanno tutta l’aria di
essere mamme e basta. Non importa - mi ripeto -, questo usciere sta facendo il
proprio lavoro, il proprio dovere. In realtà non sembra esattamente un usciere:
“staff”, recita il cartellino che porta appeso alla camicia, ma non avrà più di
venticinque anni, forse è uno studente fuori-corso reclutato per l’occasione, o
forse fa parte di una qualche agenzia di buttafuori, di quelli che solitamente
piantonano l’ingresso delle discoteche, almeno a giudicare dalla stazza e dai
vistosi tatuaggi che coprono le braccia sue e di un paio di altri, di quelli
che decidono in base a non si sa bene cosa chi entra e chi no. Mah. Mi guardo
intorno e non vedo nessun cartello che regoli l’accesso, nessuna indicazione
che stabilisca diritti e divieti. Mah.
Mi siedo su un gradino e mi fumo un
paio di sigarette. Ogni tanto mi alzo e, da fuori, sbircio sul tabellone
luminoso nell’atrio come procede l’avanzamento dei numeri. C’è tempo. A un
certo punto Carlo esce e mi dice “Tocca quasi a noi, vieni”. L’usciere all’ingresso
è cambiato, entro senza problemi; l’altro, quello di prima, piantona la porta
che immette nella immensa zona dove sono collocati gli sportelli: anche lì, a
ogni sportello, almeno una persona ad accompagnare chi si sta iscrivendo. Si
accende il numero, ci siamo. Mentre passo attraverso la porta, zacchete:
“Lei, signora?”
“Tocca a mio figlio, lo accompagno”
“E perché?”
“PERCHE’ MI FA PIACERE FARLO!”
“I genitori non possono entrare”
Torno indietro ed esco, non prima di avergli urlato qualche altra cosa non
esattamente degna di una signora. La gente si gira a guardarmi.
Ma dove cavolo sta scritto che “i genitori non possono entrare”? Dove cavolo
sta scritto che un genitore non può essere presente a un momento importante
nella vita di suo figlio? In questa logica, che cavolo ci stanno a fare i
genitori quando un figlio, che ne so, si sposa? Oh, lo so, lo so benissimo:
quel tizio avrà pensato che ero la solita mamma-chioccia (in ogni caso, non
sarei stata l’unica…), quel tipo di mamma che non lascia mai soli i figli, che
evita loro qualsiasi incombenza pratica, che con la scusa di aiutarli sempre e
comunque ne limita e alla fine ne impedisce l’autonomia, li fagocita e li
condanna a restare eternamente bambini… Già, peccato che io sia esattamente il
contrario, e che se c’è qualcosa che mi rimprovero in questi ventiquattro anni
da mamma è forse proprio il fatto di aver talvolta esagerato nel pretendere dai
miei figli capacità di autonomia, di indipendenza, lasciando che se la
cavassero da soli anche quando forse avrebbero avuto bisogno di me. Ho
rispettato i loro momenti, i loro spazi, le loro esperienze, senza violare
quello che mi sembrava il sacrosanto diritto-dovere ad avere una vita propria.
Insieme a loro, però, ho vissuto le tappe importanti del loro crescere, proprio
quelle che punteggiavano il loro graduale diventare grandi, e poi adulti,
proprio quelle che segnavano il progressivo allentamento del rapporto
madre-figlio. Ogni volta ho provato l’orgoglio, sì, l’orgoglio di essere stata
capace di metterli in grado di affrontare il segmento successivo della loro
vita, che avrebbero poi vissuto da soli, sicuri, sereni. Ogni volta, io c’ero.
Loro erano felici. Io, immensamente.
È come quando, qualche volta, vado ad assistere ai colloqui di Maturità dei
miei alunni. Loro non sanno che io sono lì: mi acquatto tra le ultime sedie,
alle loro spalle, di fronte alla Commissione che forse si chiede se io non sia,
appunto, la mamma di qualcuno. Ecco, in quelle mattine io non sono lì per
suggerire, per sostenere l’esame al posto loro, per alleviarli di un peso che
devono portare loro, da soli; soprattutto, non sono lì per privarli di
un’esperienza che devono vivere loro, unici protagonisti. Io, a quel punto,
quel che dovevo fare l’ho fatto, bene o male non lo so, so che non c’entro più,
che quel momento è loro, non mio. Certo, palpito di fronte a un’insicurezza,
un’imprecisione, un silenzio. Ma mi riempio di orgoglio quando li vedo sicuri,
sereni, capaci di gestire con scioltezza quella situazione che tanto li
spaventava, quando percepisco la loro fiducia in se stessi, quando li sento
felici. Ecco, felice della loro felicità, orgogliosa non di quello che sanno,
ma di quello che sono. A questo ho cercato di prepararli, a questo ho cercato
di formarli, giorno dopo giorno, anno dopo anno: a essere adulti, sicuri,
maturi. Appunto. A non aver più bisogno di me. E però io sono lì, con loro, a
godermi quell’ultimo momento. Con loro. Dopo, purtroppo, spariranno. È giusto.
È la vita.
Con Carlo, ieri, volevo solo essere presente in un momento importante:
vederlo apporre le ultime firme, entrare in un mondo diverso, consegnarlo al
futuro. Quando finalmente è uscito gli ho chiesto “Tutto ok?” “Tutto ok” mi ha
risposto, “ma tu non c’eri”. Ecco, sono stata privata di un momento che niente
e nessuno, mai, mai più, potrà ridarmi. Solo la rabbia mi resta. Un’inutile,
inutile rabbia.
Sì, lo so che quello che ho scritto è pieno di contraddizioni. Ma, ahimè, è
quello che penso. Quello che sono. Qualcuno dirà che queste sono solo le
farneticazioni di una cinquantenne (cinquantuno, Daniela, cinquantuno…) in
menopausa che non riesce ad accettare che i figli, prima o poi, se ne vanno. Ma
questa sono io.
Conclusioni.
Io rispetto il lavoro altrui, sempre, che sia quello di uno scienziato che
deve salvare il mondo o quello di uno pseudo-usciere giovane e tatuato.
Inoltre, per principio, non sono solita augurare nulla di male a nessuno (ci
pensa già la vita). Ma stavolta, PORCACCIA LA MISERIA, auguro a quello zelante,
stupido, deficientissimo usciere di desiderare di avere sua madre vicina in un
momento qualsiasi della sua vita. E di non poterla avere.
Amen.
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