lunedì 12 settembre 2016

La rabbia e l'orgoglio



Luogo: Segreteria Immatricolazioni Università di Torino.
Giorno e ora: lunedì 26 settembre 2011, 13.45.

Sono ad accompagnare Carlo alla sua immatricolazione all'Università. Il lunedì è il mio giorno libero, Carlo non guida ancora bene per via del ginocchio, in più la segreteria è proprio a due passi da casa dei miei (non ci vado da Natale...). In realtà tutto è un pretesto per poter condividere quello che mi sembra essere un momento importante, bello: il mio cucciolo che si iscrive all'Università... Insomma sono lì, con lui.

La segreteria è stata ricavata nell'ex Manifattura Tabacchi: uno spazio immenso, dove si aggirano centinaia di ragazzi e ragazze (ovvio...) con fogli e fogli in mano, l'aria spaesata e fintamente strafottente di chi ha vent'anni. Caldo, chiacchiericcio, le macchine sul corso. A guardar bene ci sono anche molte altre mamme, quasi tutte alla ricerca di un posto dove sedersi, possibilmente all'ombra, altre preoccupate di non sembrar meno giovani delle figlie. Qualche papà, visibilmente vigile e un po’ ansioso. Nell'atrio bisogna prendere un biglietto con il proprio numero e poi armarsi di pazienza: "Ora stimata di attesa: 42 minuti", e in realtà ci vorranno due ore e mezza...

Dopo diversi entra-esci nel tentativo di far passare il tempo, sempre con il biglietto in mano, un usciere mi blocca, mentre Carlo rientra con i suoi fogli:
“Lei, signora?”
“Ehm, sono qui con mio figlio, stiamo aspettando…”
“No, lei deve aspettare fuori”
Va beh - mi dico - in effetti ha ragione: se, oltre ai diretti interessati, anche tutti gli accompagnatori dovessero stazionare nell’atrio, l’atrio stesso scoppierebbe. Però, però, però… c’è qualcosa che non mi torna: l’atrio in realtà è proprio pieno di gente che palesemente non è lì per iscriversi: torme di amici/amiche, fidanzati, altri umani non meglio identificabili, e soprattutto signore che, escludendo l’ipotesi di un’improvvisa impennata di immatricolande cinquantenni, hanno tutta l’aria di essere mamme e basta. Non importa - mi ripeto -, questo usciere sta facendo il proprio lavoro, il proprio dovere. In realtà non sembra esattamente un usciere: “staff”, recita il cartellino che porta appeso alla camicia, ma non avrà più di venticinque anni, forse è uno studente fuori-corso reclutato per l’occasione, o forse fa parte di una qualche agenzia di buttafuori, di quelli che solitamente piantonano l’ingresso delle discoteche, almeno a giudicare dalla stazza e dai vistosi tatuaggi che coprono le braccia sue e di un paio di altri, di quelli che decidono in base a non si sa bene cosa chi entra e chi no. Mah. Mi guardo intorno e non vedo nessun cartello che regoli l’accesso, nessuna indicazione che stabilisca diritti e divieti. Mah.

Mi siedo su un gradino e mi fumo un paio di sigarette. Ogni tanto mi alzo e, da fuori, sbircio sul tabellone luminoso nell’atrio come procede l’avanzamento dei numeri. C’è tempo. A un certo punto Carlo esce e mi dice “Tocca quasi a noi, vieni”. L’usciere all’ingresso è cambiato, entro senza problemi; l’altro, quello di prima, piantona la porta che immette nella immensa zona dove sono collocati gli sportelli: anche lì, a ogni sportello, almeno una persona ad accompagnare chi si sta iscrivendo. Si accende il numero, ci siamo. Mentre passo attraverso la porta, zacchete:
“Lei, signora?”
“Tocca a mio figlio, lo accompagno”
“E perché?”
“PERCHE’ MI FA PIACERE FARLO!”
“I genitori non possono entrare”
Torno indietro ed esco, non prima di avergli urlato qualche altra cosa non esattamente degna di una signora. La gente si gira a guardarmi.

Ma dove cavolo sta scritto che “i genitori non possono entrare”? Dove cavolo sta scritto che un genitore non può essere presente a un momento importante nella vita di suo figlio? In questa logica, che cavolo ci stanno a fare i genitori quando un figlio, che ne so, si sposa? Oh, lo so, lo so benissimo: quel tizio avrà pensato che ero la solita mamma-chioccia (in ogni caso, non sarei stata l’unica…), quel tipo di mamma che non lascia mai soli i figli, che evita loro qualsiasi incombenza pratica, che con la scusa di aiutarli sempre e comunque ne limita e alla fine ne impedisce l’autonomia, li fagocita e li condanna a restare eternamente bambini… Già, peccato che io sia esattamente il contrario, e che se c’è qualcosa che mi rimprovero in questi ventiquattro anni da mamma è forse proprio il fatto di aver talvolta esagerato nel pretendere dai miei figli capacità di autonomia, di indipendenza, lasciando che se la cavassero da soli anche quando forse avrebbero avuto bisogno di me. Ho rispettato i loro momenti, i loro spazi, le loro esperienze, senza violare quello che mi sembrava il sacrosanto diritto-dovere ad avere una vita propria. Insieme a loro, però, ho vissuto le tappe importanti del loro crescere, proprio quelle che punteggiavano il loro graduale diventare grandi, e poi adulti, proprio quelle che segnavano il progressivo allentamento del rapporto madre-figlio. Ogni volta ho provato l’orgoglio, sì, l’orgoglio di essere stata capace di metterli in grado di affrontare il segmento successivo della loro vita, che avrebbero poi vissuto da soli, sicuri, sereni. Ogni volta, io c’ero. Loro erano felici. Io, immensamente.

È come quando, qualche volta, vado ad assistere ai colloqui di Maturità dei miei alunni. Loro non sanno che io sono lì: mi acquatto tra le ultime sedie, alle loro spalle, di fronte alla Commissione che forse si chiede se io non sia, appunto, la mamma di qualcuno. Ecco, in quelle mattine io non sono lì per suggerire, per sostenere l’esame al posto loro, per alleviarli di un peso che devono portare loro, da soli; soprattutto, non sono lì per privarli di un’esperienza che devono vivere loro, unici protagonisti. Io, a quel punto, quel che dovevo fare l’ho fatto, bene o male non lo so, so che non c’entro più, che quel momento è loro, non mio. Certo, palpito di fronte a un’insicurezza, un’imprecisione, un silenzio. Ma mi riempio di orgoglio quando li vedo sicuri, sereni, capaci di gestire con scioltezza quella situazione che tanto li spaventava, quando percepisco la loro fiducia in se stessi, quando li sento felici. Ecco, felice della loro felicità, orgogliosa non di quello che sanno, ma di quello che sono. A questo ho cercato di prepararli, a questo ho cercato di formarli, giorno dopo giorno, anno dopo anno: a essere adulti, sicuri, maturi. Appunto. A non aver più bisogno di me. E però io sono lì, con loro, a godermi quell’ultimo momento. Con loro. Dopo, purtroppo, spariranno. È giusto. È la vita.

Con Carlo, ieri, volevo solo essere presente in un momento importante: vederlo apporre le ultime firme, entrare in un mondo diverso, consegnarlo al futuro. Quando finalmente è uscito gli ho chiesto “Tutto ok?” “Tutto ok” mi ha risposto, “ma tu non c’eri”. Ecco, sono stata privata di un momento che niente e nessuno, mai, mai più, potrà ridarmi. Solo la rabbia mi resta. Un’inutile, inutile rabbia.

Sì, lo so che quello che ho scritto è pieno di contraddizioni. Ma, ahimè, è quello che penso. Quello che sono. Qualcuno dirà che queste sono solo le farneticazioni di una cinquantenne (cinquantuno, Daniela, cinquantuno…) in menopausa che non riesce ad accettare che i figli, prima o poi, se ne vanno. Ma questa sono io.

Conclusioni.
Io rispetto il lavoro altrui, sempre, che sia quello di uno scienziato che deve salvare il mondo o quello di uno pseudo-usciere giovane e tatuato. Inoltre, per principio, non sono solita augurare nulla di male a nessuno (ci pensa già la vita). Ma stavolta, PORCACCIA LA MISERIA, auguro a quello zelante, stupido, deficientissimo usciere di desiderare di avere sua madre vicina in un momento qualsiasi della sua vita. E di non poterla avere.
Amen.

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