giovedì 19 settembre 2024

I ponti di Madison County: una stroncatura

 
Confesso: alla mia veneranda età non avevo mai letto I ponti di Madison County. Il film, certo, visto e rivisto, e anzi rivisto per l’ennesima volta subito dopo aver letto il romanzo.

Che poi proprio di “romanzo” non si tratta…

Comunque, tanto per cominciare, ecco due diversi riassunti della storia. Il primo è quello, poetico e sublimato, che compare sulla quarta di copertina della prima edizione per Frassinelli, il secondo invece è quello ironico e dissacrante di una simpatica blogger:

1)

Robert Kincaid è un singolare, quasi mistico viaggiatore dei deserti asiatici, di fiumi lontani, di antiche città, un uomo che sembra non appartenere al suo tempo. Francesca Johnson, un'italiana giunta in America come sposa di guerra, vive tra le colline dello Iowa meridionale e, di tanto in tanto, torna col pensiero ai suoi sogni di ragazza. Nessuno dei due ha mai cercato qualcosa di diverso da ciò che ha, ma quando Robert, in viaggio per un servizio, entra nel cortile di lei per chiedere un'informazione, il ritmo delle loro esistenze si spezza sotto la forza di un'emozione inesprimibile. L'incontro tra Robert e Francesca diventa rapidamente un legame profondo e ciò che accade durante pochi giorni di una torrida estate, presso i vecchi ponti coperti di Madison County, è per entrambi un'esperienza così intensa da trasfigurare i luoghi consueti e i gesti quotidiani. I momenti trascorsi insieme diventano un patrimonio raro e prezioso di sentimenti a cui attingere per il resto della vita e che sopravviverà a loro stessi.


2)

Francesca, di origini napoletane […] vive nell’Iowa insieme a un marito agricoltore e a due figli poco più che adolescenti. Marito e prole partono per andare ad una fiera […] e Francesca resta a casa da sola, per una settimana. Volete sapere cosa succede in quella settimana? Un certo Robert Kincaid, fotografo, arriva a Madison County per fotografare i suoi famosi ponti per un servizio del National Geografic e caso vuole che si perda con il suo furgone proprio vicino alla tenuta di Francesca, che non si limita a indicargli la strada ma, lontanamente da ogni logica per cui tutte noi sappiamo che non sia il caso di salire in macchina con uno sconosciuto, lei lo accompagna al ponte e da subito fa pensieri non propriamente da madre di famiglia sul fustacchione che ha appena conosciuto. Lo invita a cena ma non succede nulla anche se lei non pensa ad altro, quindi il giorno dopo gli lascia un biglietto attaccato al ponte che sa che lui andrà a fotografare per replicare la cena e – lei spera – qualcosa di più. Eh già, perché dovete sapere che da pudica e sciatta contadina dell’Iowa lei in due giorni diventa una sexy e intrigante gnocca che flirta in ogni modo possibile con il bel fotografo, si compra vestiti che accorcia per l’occasione in modo da mostrare le gambe e cucina in modo che lui possa vederle il di dietro. A furia di flirtare ovviamente finiscono a letto e questo è il loro unico pensiero per i giorni successivi. Altro che amore profondo e platonico, qui si consuma e lo si fa di brutto, che in confronto le casalinghe disperate non sono nessuno! Però sapete com’è, dopo aver copulato per una settimana ed essersi – a suo dire – innamorata di lui – l’unico uomo al mondo che in così poco tempo chiederebbe ad una donna di scappare insieme, ma Robert lo fa! – si rende conto che ha delle responsabilità verso quel cornuto del marito – con cui dice di fare sesso una volta ogni due mesi ma mai ovviamente come lo fa con Robert! – e verso i figli. Robert riparte e lei resta innamorata di lui fino alla fine dei suoi giorni tanto che dopo 22 anni ancora aspetta che lui ritorni ed ogni giorno, il giorno del suo compleanno, si beve un bicchiere di Brandy in veranda, riguarda la foto che lui le aveva scattato e ripensa ai numeri da circo che facevano sotto le lenzuola e sul tavolo della cucina, tavolo che lei ha fatto riportare in casa dalla cantina non appena il marito schiatta. Ma c’è di più, non cerca Robert per quindici anni per tenere fede alla sua decisione, ma appena il marito passa a miglior vita e lo sotterra, ricompone quel numero che il fotografo le aveva lasciato senza riuscire a rintracciarlo. Voi direte… Francesca si porta nella tomba il suo segreto! E invece no, perché quando non riesce a rintracciare Robert inizia a scrivere un diario dove descrive tutte le notti e i giorni passati a fare sesso con quello che non era suo marito e prima di morire lascia una lettera ai figli con tanto di spiegazioni mica troppo velate. Gli dice infatti di andare a leggere il tutto al tavolo della cucina, specificandogli che nel diario troveranno la motivazione della sua richiesta… ovviamente facendo capire anche a loro, e non troppo velatamente, cosa aveva fatto la mamma su quel tavolo con il suo amante. […] Uh ma mica è finita qui! I figli sapete cosa fanno dopo aver scoperto il passato torbido della madre? Una persona normale avrebbe almeno tirato quattro parolacce e si sarebbe un po’ arrabbiata no? Eh no, loro no, loro piangono pensando alla povera madre che per una vita intera ha dovuto rinunciare al suo amore per colpa loro e decidono di contattare uno scrittore affinché scriva un libro che racconti la loro storia (che poi sarebbe il libro che io ho letto).

(https://libroperamico.blogspot.com/2017/03/recensione-180-i-ponti-di-madison.html)

 

Insomma, al di là di possibili rivisitazioni divertite e divertenti, una storia in sé davvero disarmante nella sua banalità: un fotografo giramondo incontra per caso, nel bel mezzo dell’America più profonda, una casalinga repressa e insoddisfatta; i due si amano appassionatamente per quattro giorni ma alla fine lei rinuncia a lui pensando ai propri doveri di moglie e di madre. Bon, fine della storia.

Una storia banale, ok, che però il film (1995) ha saputo magistralmente tradurre in immagini e atmosfere, ottenendo non a caso varie candidature agli Oscar e ai Golden Globe.

Ma qui stiamo parlando del libro… «Una delle più belle storie d’amore della letteratura», come ancora recita la quarta di copertina? Temo proprio che Shakespeare e Tolstoj si stiano rivoltando nella tomba, ma anche solo Nicholas Sparks non si sente tanto bene…


E qui voglio subito precisare una cosa: siccome il libro parla di un amore travolgente e impossibile, che resta vivo e indelebile nell’anima dei protagonisti per più di vent’anni, non si creda che io sia cinicamente insensibile a questo genere di storie. Conosco l’amore, quell’amore. Conosco la vertigine del perdersi nell’altro, l’impressione abbacinante di fondersi con l’universo. Conosco il ricordo incancellabile di un volto, di un odore. Conosco il rimpianto che dura una vita.

Ma qui, cavolo, la storia è proprio raccontata male!

Dunque, cominciamo dall’inizio. La storia viene presentata come una vicenda realmente accaduta che viene ricostruita a posteriori da uno scrittore-detective, cui i figli della protagonista si rivolgono perché appunto trasformi diari e appunti della madre in una narrazione vera e propria (anche se non si capisce a quale scopo). Quindi, saremmo in presenza di un narratore esterno che, in modo più o meno oggettivo, racconta una storia altrui.

La faccenda però si complica, perché lo scrittore-detective, a un certo punto del capitolo che funge da introduzione, dice: Alla fine del mio vagabondaggio, mentre mi dirigevo verso la Madison County, mi parve per molti versi di essere diventato Robert Kincaid. Dunque, una dichiarata identificazione tra narratore e personaggio.

Ma non finisce qui, anzi, perché se si va a cercare qualche informazione sull’autore del romanzo, Robert James Waller, si scopre che fu anche fotografo e musicista dilettante, ovvero esattamente ciò che è Robert Kincaid, il protagonista del romanzo. Per non parlare dell’omonimia Robert-Robert, ovvero autore-protagonista, e delle loro evidentissime somiglianze fisiche (bretelle arancioni comprese.) Insomma, abbiamo a che fare con un autore-narratore-personaggio che sono in realtà la medesima persona.

Cosa determina tutto questo? Determina il fatto che non è mai chiaro “chi parla”: il narratore, in una narrazione più o meno oggettiva e spersonalizzata? Il protagonista, in una focalizzazione interna realizzata dal narratore? O piuttosto l’autore, che proietta e ricostruisce se stesso nel protagonista, in modo palesemente compiaciuto e autocelebrativo?

Complessa e complicata è anche la struttura narrativa: a un capitolo introduttivo in cui a parlare in prima persona è il narratore-detective, seguono due capitoli dedicati ognuno ai due protagonisti (Robert, Francesca), capitoli che però non sono affatto solo descrittivi ma anche narrativi, in quanto accolgono passaggi che fanno parte integrante e imprescindibile della storia. Addirittura, nel capitolo Francesca ci si sposta cronologicamente alla fine della storia, quando lui è già morto e lei, anni dopo, ripercorre nel ricordo il loro incontro. Seguono un paio di capitoli esclusivamente narrativi in cui viene raccontata la vicenda centrale (inframezzati però da testi poetici di non si sa chi…), per finire con lettere, deliranti abbozzi di racconti e, in ultimo, la trascrizione di un’intervista rilasciata al narratore-detective da un sassofonista jazz che avrebbe raccolto le ultime confidenze del protagonista.

Insomma, una struttura narrativa a dir poco caotica (anche se, ammetto, originale e accattivante).

Ma mi rendo conto che queste sono disquisizioni tipicamente da prof, oziose e noiose.

Ok, proviamo allora a considerare i personaggi, almeno per come è possibile ricostruirli tra una pagina e l’altra.

Lui: Robert Kincaid, fotografo giramondo ma anche scrittore-poeta e musicista dilettante. Cinquantadue anni, alto, occhi azzurri, muscoloso ma snello, con piccole natiche inguainate nei jeans. Rigorosamente vegetariano (in compenso fuma come un turco e beve birra, birra, a pintoni). Si autodefinisce l’ultimo cowboy, anzi si ritiene l’ultimo prodotto di un ramo dell’evoluzione condannato a estinguersi (anche se… un po’ di coerenza, diamine, perché altrove si dice che era un essere molto addietro nelle ramificazioni della logica di Darwin. Un babbuino?). Il narratore lo definisce ripetutamente come una specie di stregone, che ospitava dentro di sé luoghi strani, oppure come uno sciamano, caratterizzato da un malinconico senso del tragico combinato a una grande potenza fisica e intellettuale. Ed è proprio il termine “potenza”, declinato in tutte le sue varianti (“potere”, “potente”…), che ritorna ossessivamente nel suo ritratto. Di certo lui si prende tremendamente sul serio, si lancia in pipponi ecologisti e sociologici contro la maledizione dei tempi moderni e crede che sia indispensabile trovare il modo di sublimare gli ormoni maschili, causa ultima dei problemi che affliggono il pianeta. Peccato che nel corso di tutta la storia siano proprio gli ormoni maschili a guidarlo…

Lei: Francesca Johnson, origini italiane (il cognome è quello del marito americano, ed è significativo che non venga mai indicato il cognome da nubile), sposa di guerra. Alta circa uno e sessantacinque, sulla quarantina o poco più, con un viso grazioso e un bel corpo. Capelli lunghi e scuri, sempre trattenuti da un fermaglio. Casalinga, moglie e madre. In realtà si accenna anche a un passato universitario, a una laurea in letteratura comparata e a un’attività come insegnante, abbandonata perché il marito «diceva che era perfettamente in grado di mantenerci e che non c’era alcuna necessità che continuassi». Il narratore-autore-personaggio la fa emergere (o meglio, la fa sprofondare) come una donna che aveva vissuto nell’aspettativa – nella possibilità, perlomeno – di un’esperienza piacevole, che interrompesse finalmente una routine di ossessionante monotonia (Madame Bovary le fa un baffo…). Ma quando lui, dopo quattro giorni di esaltante passione, le propone di abbandonare tutto e di fuggire insieme, lei, pensando a marito e figli, oppone queste ragioni: «Ma più grave e ancora più doloroso sarebbe per lui il dover sopportare per il resto della sua vita i mormorii della gente di qui: […] ne soffrirebbe e i ragazzi diventerebbero l’oggetto degli scherni». Cioè, non è che decide di rinunciare all’amore e alla felicità che lui le offre pensando al dolore che causerebbe e che proverebbe, no, pensa ai mormorii della gente

Va bene, d’accordo: la complessità dei personaggi non sta tutta e solo in queste poche e arbitrarie notazioni. Io ne ho ricavato comunque un’ipotesi, anzi quasi una certezza: il romanzo è assai probabilmente il racconto, più o meno – appunto – romanzato, di una vicenda reale vissuta dall’autore, Robert James Waller. E cioè: il signor Waller ha conosciuto, in qualche luogo e in qualche tempo, una procace signora, non particolarmente brillante né raffinata ma decisamente disponibile; ha avuto con lei una focosa quanto fugace relazione e ha deciso di trasfigurare tale episodio della propria vita in pagine tanto liricamente costruite quanto poco convincenti, utili ad autoassolversi e, già che c’era, a plasmare un’immagine eroica di sé, delegando tale compito a un fantomatico quanto poco credibile narratore esterno.

Anche la procace ma non brillante né raffinata signora (depilazione e manicure le sono sconosciute) viene in effetti trasfigurata, non solo attraverso l’attribuzione di una laurea in letteratura ma anche attraverso le ripetute sottolineature della sua “intelligenza”: Ma in Francesca Johnson c’era qualcosa che lo colpiva. C’era intelligenza, lo intuiva; e ancora: Studiava il suo corpo, pensava all’intelligenza di cui, ora lo sapeva, era dotata. Già, peccato che tale “intelligenza” non venga fatta emergere mai, ma proprio mai, anzi: Lei non capì e gli chiese spiegazioni; e ancora: Lei non capiva che cosa intendesse. Vero è che lui la sommerge in continuazione di citazioni e riferimenti colti: Rachel Carson, John Muir, Aldo Leopold, Thomas Wolfe… riferimenti che lei ovviamente non conosce e non comprende (per la verità, neppure il lettore…). E mentre lui, durante l’amplesso (gli amplessi, plurale…), le parla delle visioni che proprio lei gli aveva donato… sabbia turbinante e venti color magenta, e pellicani bruni che cavalcavano delfini diretti a nord lungo la costa d’Africa (🙄), lei emette solo piccoli suoni inintelligibili, al massimo bisbiglia Oh, Robert… Robert… E se proprio proprio vuole esprimere qualcosa di “intelligente” dice (o meglio, le viene fatto dire) Robert, sei così potente (e te pareva…). Coerentemente, lui, nell’ultima lettera che le invia parecchi anni dopo il loro incontro, così scrive: cerco di immaginare dove sei e che cosa stai facendo. Niente di complicato… ti vedo in giardino, seduta sulla veranda, in piedi davanti al lavello della cucina. Cioè, non è che se la immagina, che so, mentre legge un libro o scrive qualcosa, no, in piedi davanti al lavello della cucina.

E così, tra sabbia turbinante e venti color magenta, veniamo allo stile del romanzo. Come già detto, la struttura narrativa è molto articolata, ciò che determina una altrettanto articolata varietà stilistica ed espressiva. Se nel capitolo introduttivo e in quelli finali le modalità linguistiche sono assolutamente sobrie e asettiche, nei capitoli centrali la faccenda cambia, e di molto, assumendo i tratti di un lirismo tanto compiaciuto quanto improbabile: Il leopardo infuriava sopra di lei, ancora e ancora, come il vento incessante della prateria, e lei fremeva, travolta dal suo slancio, cavalcava quel vento come una vergine del tempio che avanza verso le fiamme miti e compiacenti che delimitano la dolce curva dell’oblio. Mah…

Di certo, se, mentre faccio l’amore con un uomo, costui mi sussurrasse all’orecchio nel momento culminante «Io sono l’autostrada e il pellegrino e tutte le vele che hanno mai solcato i mari» bah, forse contatterei il più vicino centro di salute mentale, di sicuro me la filerei a gambe levate.

Comunque, a proposito di stile, consideriamo le figure retoriche, concentrate nei capitoli centrali (e qui ci divertiamo).

Quando lui e lei ballano in cucina (reciprocamente attratti ma non ancora dichiarati), lei avverte l’intensità dell’emozione di lui, acuta come una freccia, in una notte in cui Non c’era vento, e il granturco cresceva (roba che manco Pascoli nel Gelsomino notturno…), mentre, alla luce delle candele, era buio, fatta eccezione per le fiammelle puntate verso l’alto. E quando poi, finalmente, i due danno libero sfogo al reciproco desiderio, la performance di lui è metaforicamente così descritta: Percorse i sentieri delle antiche vie, orientandosi con candele di gelo incendiate dal sole, che si liquefacevano sull’erba estiva (!!!).

Insomma, nonostante il tentativo di presentare come tantrici e trascendenti, quasi mistici, gli amplessi tra i due protagonisti (ciò che esisteva fra loro andava ben oltre l’aspetto fisico. Amarlo era spirituale, spirituale), l’attenzione del narratore-autore, conscia o inconscia, è tutta concentrata , sempre e soltanto .

D’altra parte, tutto ma proprio tutto il romanzo è ossessivamente disseminato di immagini e oggetti dal chiaro simbolismo sessuale: lance, frecce, missili, candele, coltelli, treni che si inerpicano… Insomma, tutto il più scontato repertorio onirico freudiano.

E non mi si venga a dire che me ne sono accorta solo perché sono una donna, secondo la ridicola storia dell’ “invidia del pene”…

Anzi, già che siamo in territorio freudiano, non poteva mancare il più classico dei classici: un bel complesso di Edipo! Nel libro vi si accenna velatamente nel penultimo capitolo (il film, al contrario, coglie e amplifica di molto il tema), nell’imbarazzo del figlio, Michael, che prende atto dei ricordi della madre, la quale madre non solo non si risparmia nei particolari circa la propria relazione extraconiugale ma anzi specifica che non credo che sia possibile trovare in un uomo il particolare potere di cui Robert Kincaid era dotato. Questo ti mette fuori gioco, Michael.

No comment 😔.

Ma non è questo, non è questo, non è questo quello che più mi ha disturbato nella lettura del libro. Quello che più mi ha contrariata, e indispettita, e urtata, e irritata, e profondamente indignata, è la visione esclusivamente maschile, anzi, biecamente maschilista del rapporto uomo-donna. Una visione predatoria e ferina, in cui lui si avvicina a lei come farebbe un leopardo nell’erba alta della savana. Una visione in cui lui non fa semplicemente l’amore ma “affonda”, “sprofonda”, “cavalca”, “domina”, “infuria”. Una visione in cui lui, tentando di sottrarsi al fascino di lei, si esorta a pensare a un’altra donna, assai compiacente: e al tramonto ascoltala urlare mentre la penetri (sinceramente, non si capisce perché una donna, in quel momento, debba “urlare”. A meno che non sia vittima di uno stupro...). Una visione in cui, infine, è presente una rappresentazione stereotipata, distorta e, appunto, biecamente maschilista della psicologia femminile: lui la dominava completamente, proprio come lei desiderava che accadesse.

In conclusione…

Se consiglio il libro? Oh sì, certo: lo consiglio a tutti quegli uomini che si gingillano e si crogiolano nella propria delirante illusione di potenza, i quali uomini si identificheranno immediatamente nella tanto autocompiaciuta quanto fittizia complessità interiore del protagonista e soprattutto nella sua sostanziale e radicatissima ferinità; sono certa che apprezzeranno molto la lettura.

Soprattutto, consiglio il libro a tutte quelle donne che non rinunciano a esercitare la propria capacità critica, a difendere e ad amare la propria dignità, a rifiutare di essere rappresentate secondo cliché umilianti, a riconoscere e combattere mentalità tanto rivoltanti quanto pericolose, le quali donne non si identificheranno affatto nella supinità della protagonista, nel suo essere acquiescente ed eternamente subordinata al maschio, nel suo essere complice di stereotipi triti e ritriti, nel suo rinunciare alla propria felicità (e non per la felicità altrui, il che sarebbe comprensibile e finanche ammirevole, ma solo per meschini scrupoli piccolo-borghesi). Ecco, a tutte queste donne consiglio - provocatoriamente - questo libro: sono certa che lo odieranno.

Amen.

 

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